Pinterest perde il primo round sul marchio in Europa

Davvero Pinterest è uno dei social network più famosi al mondo? Per l’Uami, l’Ufficio europeo preposto alla registrazione dei marchi comunitari, sembrerebbe di no (decisione UAMI). L’Ufficio ha infatti respinto l’opposizione promossa dal social network contro la domanda di registrazione del marchio presentata da una società inglese, la Premium Interest Ltd, pochi giorni prima di Pinterest Inc.
Per chi ancora non lo sapesse, Pinterest è un social network basato sulla condivisione di immagini che ha raggiunto in pochi anni oltre 140 milioni di utenti nel mondo. Secondo una recente ricerca, il social network è così popolare tra gli adulti americani da avere superato Twitter, collocandosi al terzo posto dietro Facebook e LinkedIn (fonte: Pew Media Research)
Eppure, Pinterest non è riuscito a dimostrare ai giudici comunitari di avere utilizzato in il marchio anteriormente al deposito da parte di Premimum Interest (gennaio 2012) la quale, per inciso, offre servizi sul web tra cui un servizio di news tratte proprio dai social network.

I documenti prodotti nella procedura di opposizione sono stati ritenuti inidonei a provare l’uso del marchio “non registrato” Pinterest sul territorio di riferimento (in questo caso UK) perché privi di data, oppure datati successivamente al deposito avversario, o ancora perchè riguardanti altri territori. L’Ufficio ha esaminato i dati relativi al numero di utenti e alle statistiche di traffico (che solo in UK mostravano circa due milioni di visite all’epoca del deposito di Premium), ritenendoli però semplici stime, inidonee a provare l’uso effettivo e l’esatta ubicazione dei visitatori. Stessa sorte per le notizie della stampa e dei blog, che secondo l’Ufficio possono servire a spiegare cos’è Pinterest e quali le sue funzionalità , ma non a dimostrare un uso qualificato del marchio sul territorio. Quanto al fatto che Pinterest, come ogni sito Internet, sia potenzialmente accessibile da ogni parte del mondo non proverebbe per l’UAMI, in assenza di altri elementi, l’uso del marchio o la sua conoscenza da parte del pubblico di riferimento inglese nel senso prescritto dalla normativa.

La decisione, contro cui è stato proposto ricorso, lascia davvero perplessi. Da un lato, perché non considera che documenti anche datati posteriormente potrebbero comunque dimostrare l’uso anteriore del marchio Pinterest (non si raggiungono due milioni di visite e 200.000 utenti da un giorno con l’altro, soprattutto se consideriamo che l’accesso al socila network è basato su un sistema di “inviti”); anche le notizie riportate sulla stampa e sui blog inglesi avrebbero potuto confermare il grande interesse che il social network in quel periodo suscitava sul territorio e dunque, indirettamente, la sua diffusione e l’utilizzo del marchio in epoca anteriore. Inoltre, i precedenti cui l’UAMI fa riferimento per affermare che l’esistenza di un sito web potenzialmente accessibile a tutti non dimostra l’uso del marchio, non possono essere applicati tout-court ai social network che, per definizione, implicano l’interazione degli utenti.

Se anche resta difficile credere che non sia stato possibile dimostrare una “presenza reale ed effettiva, non puramente locale” al gennaio 2012, per Pinterest ora la strada è davvero molto in salita, se si considerano i limiti imposti dalla procedura comunitaria al deposito di nuovi documenti.
Ad ogni modo, la decisione impone una riflessione molto seria sull’attualità di alcune interpretazioni dei principi di territorialità e di uso del marchio previsti dalle normative nazionali e comunitarie. I giudici comunitari sembrano infatti non considerare che l’avvento di internet, dei social media, dei blog, del marketing virale ha profondamente trasformato i tradizionali meccanismi di nascita dei marchi.
Questo fenomeno di “ultraterritorialità”, se pure non riguarda ancora tutti i brand, è ormai inarrestabile ma nel frattempo, i social network sono avvisati: non depositare il marchio sul territorio comunitario prima di lanciare un servizio globale può costare molto, molto caro.

Per leggere l’articolo integrale pubblicato su Il Sole 24 Ore del 22/2/2014.

 

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