L’uso dei segni distintivi sui social media (network, blog, microblog, siti di file sharing, etc.) è diventata questione di primissimo piano.
Se infatti è vero che la notorietà e la diffusione di sistemi di comunicazione “sociale” come Facebook, Linkedin, Twitter può costituire un’ottima opportunità di visibilità e promozione dei propri marchi (basti pensare che ci sono pagine su Facebook che hanno decine di milioni di fan!), è altrettanto vero che la loro diffusione, davvero ampia numericamente e geograficamente, può moltiplicare le occasioni di interferenza e lesione dei diritti di terzi. Le interferenze tra segni registrati sono sempre più frequenti, soprattutto in considerazione della diffusione sovranazionale, per non dire globale, dei social (per cui è possibile ipotizzare conflitti tra legittimi titolari di marchi identici ma registrati in territori differenti).
Per il momento però, l’onore della cronaca spetta ai casi di sfruttamento di segni distintivi da parte di terzi non autorizzati, come ad esempio l’uso del marchio altrui in spazi pubblicitari, oppure la registrazione di URL o Gruppi con il nome in tutto o in parte coincidente con il marchio altrui, e, ovviamente, gli usi contraffattori. Inoltre, la continua evoluzione del marketing via web pone spesso l’interprete di fronte a casi nuovi, in cui non sempre è agevole determinare se si sia o meno in presenza di una contraffazione.
In Italia, il Tribunale di Torino, con ordinanza cautelare del 7 luglio 2011, ha censurato l’uso di un marchio simile al marchio altrui come nome per un Gruppo su Facebook. Come si legge nella motivazione, un ex addetto commerciale della società titolare del marchio, amministratore del Gruppo, una volta cessata la sua collaborazione, aveva proceduto a modificare il nome del Gruppo con un altro simile, a rimuovere gli altri amministratori, e a reindirizzare i partecipanti sul sito di una società concorrente.
I giudici riconoscono la rilevanza economica che può avere un Gruppo su Facebook, qualora tale gruppo sia collegato ad una impresa commerciale, rilevando altresì che la stessa amicizia virtuale “può rappresentare un thesaurus di contatti qualificati potenzialmente produttivi di avviamento commerciale“. Inoltre, di fronte alla difesa del resistente, che sosteneva la correttezza del suo operato alla stregua delle regole che governano la creazione e la gestione dei Gruppi Facebook, il Tribunale ha ritenuto che si trattasse di considerazioni “inficiate da un difetto di fondo; ossia quello di privilegiare per l’attribuzione della titolarità del segno distintivo le regole interne di Facebook quale sorta di lex specialis, trascurando la supremazia delle norme generali che disciplinano i rapporti intersoggettivi nell’ambito statuale e in particolare nell’ambito dei rapporti commerciali sul mercato, a cui le regole associative di Facebook si debbono evidentemente inchinare“, incluse quelle poste a tutela dei segni distintivi.
In altre parole: non esiste una “legge” di Facebook che può travalicare quanto disposto nell’ordinamento italiano in materia di contraffazione di marchi.